Con i suoi 1253 metri di altezza, il Monte Scuderi è una delle cime più alte dei Monti Peloritani (ME). Inoltre il monte si ricollega, tramite una piccola sella, al Monte Poverello e al Monte Cavallo, facenti parte dello stesso complesso montuoso. Dal monte si può assistere ad un panorama mozzafiato: paesaggi siciliani da un lato e panorami calabresi dall’altro.
Si può accedere al Monte da diversi percorsi:
- da frazione Mannello tramite Portella Salice per Culma Caravaggi o Portella Salice per Culma Lia;
- da Contrada Caravaggi;
- da Contrada Mandrazza.
Il Club Alpino italiano, che si occupa di salvaguardare tale ambiente, ha predisposto un percorso tracciato per agevolare le escursioni.
Presenza umana
Questa montagna venne abitata fin dall’età preistorica, poi la presenza di popolazioni si intensificò soprattutto con i bizantini che crearono una vera e propria città fortificata chiamata Micos o Vicos (dal greco, dirupo).
Dai ritrovamenti archeologici si pensa che i bizantini occuparono il Monte per un periodo abbastanza lungo, ovvero fino al XVI secolo, quando l’altura venne presa di mira per la ricerca di tesori. Provenendo da nord o da sud è facile trovare possenti strutture murarie di considerevole spessore e lunghezza, realizzate con scaglioni di calcare locale.
Nella parte settentrionale è presente un cumulo di pietrame a forma di una grande vasca rettangolare, chiamata “La Casa del Re”, utilizzata per raccogliere le acque. Qui è anche presente una sorta di fortificazione che blocca l’accesso al pianoro. Oltre queste mura sono stati ritrovati cocci dell’era bizantina, oltre monete e medaglie risalenti al VII-VIII secolo dopo Cristo.
Il Monte Scuderi fu molto utilizzato anche in epoche più recenti: fino al 1950, prima che le abitazioni fossero dotate di freezer, veniva utilizzato come fornitore naturale di ghiaccio! Per questo motivo nelle cime più alte sono presenti dei fossi rivestiti di pietrame a secco che raccoglievano la neve nei periodi più gelidi. Questa veniva pestata, uniformata e compattata tale da formare delle enormi distese di ghiaccio.
Per poter conservare il ghiaccio la distesa veniva ricoperta di foglie di felce, poi i “nivaroli” si occupavano dell’estrazione del ghiaccio e la successiva vendita ai bar o alle famiglia agiate.
La leggenda
Si narra che Re Saturno, con la sua lunga barba bianca, utilizzava mantelli d’oro e d’argento ed adorava la ricchezza. Un giorno la morte bussò alla sua porta e prese una decisione affinché il tesoro non andasse disperso, lasciandolo in custodia eterna alla figlia. Quest’ultima, avendo subito l’incantesimo di eternità dal padre, cadde in una profonda depressione, perché lei di ricchezza e sfarzo proprio non ne voleva sapere.
Il tesoro era di grandissimo valore economico e, a detta di qualcuno, sarebbe stato necessario per saldare tutti i debiti della Sicilia. Per entrarne in possesso vi erano delle condizioni da rispettare:
- tra il gruppo di ricercatori doveva esserci almeno un prete ed una donzella casta;
- in una notte di luna piena essi dovevano produrre a mano un tovagliolo di tessuto;
- nella stessa notte dovevano pescare del pesce fresco e portarlo ancora vivo in cima al Monte, per poi essere cotto e mangiato con il tovagliolo;
- il tutto doveva avvenire prima del sorgere del sole.
La mattina si dovrà entrare nella grotta del tesoro, bisognerà farsi leccare da un serpente senza avere il minimo timore e solo allora si potrà incontrare la figlia del Re. Il sacerdote con una serie di citazioni liturgiche potrà spezzare l’incantesimo, ma prima bisognerà raggiungere l’altra sponda del lago contando “13 volte 13”. Spezzato l’incantesimo essi diventeranno proprietari del tesoro.
Un gruppo di ricercatori di Alì provò tale impresa ma senza ottenere risultati.